Dunque Damide parlerà da sè, e con la bocca sua, ed egli si servirà del turcimanno, cui dirà nell’orecchio il suo pensiero, e quegli esporrà con bella rettorica ciò che ha udito e forse neppure capito. Oh, come ne riderebbe la moltitudine! Via, scartiamola questa per un’altra volta. Ma tu che ti dici profeta, e con quest’arte hai guadagnato assai, e sino i mattoni d’oro, perchè ora non ci mostri una pruova di cotest’arte, e non ne predici chi dei due sofisti vincerà la disputa? Quel che avverrà lo sai, perchè sei profeta.
Apollo. Come è possibile far questo, o Momo, se non ho qui il tripode, nè i suffumigi, nè la fonte fatidica, come la Castalia?
Momo. Oh, vedi? Trovi subito la scappatoia quando sei messo alle strette.
Giove. Via, o figliuolo, di’ pure; e non dare a questo maldicente occasione di calunniare e deridere l’arte tua, che la è posta nel tripode, nell’acqua e nell’incenso, sì che se non hai queste cose non sai far niente.
Apollo. Era meglio, o padre, far questa faccenda in Delfo o Colofone, dove ho tutto l’occorrente. Ma pure, sebbene così senza nulla, e all’improvviso, tenterò di predire di chi sarà la vittoria. Perdonate, se i versi non saran di buona misura.
Momo. Di’ pure, ma chiaro, ve’, o Apollo; e che non ci voglia poi il turcimanno o l’interpetre: chè ora non si lessano insieme carni d’agnello e di testuggine in Lidia; ma sai di che si tratta.
Giove. Che dirai, o figliuolo? Oh, come prima dell’oracolo ei diventa terribile! si trascolora, rota gli occhi, gli si rizzano i capelli! che movimenti furiosi!
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