Timocle. Ma, o nemico degli Dei, e gli oracoli e le predizioni del futuro di chi sono opera? non degli Dei e della loro provvidenza?
Damide. Oh, degli oracoli non parlare, o uomo dabbene; chè io ti dimanderò, di quale vuoi tu ricordarti? Di quello che Apollo diede al Lido; e che era equivoco e a due facce, come sono quei Mercurii che n’hanno una dinanzi, l’altra di dietro simili? Creso passerà l’Ali, e rovinerà un impero: ma il suo, o quel di Ciro? Eppure quello sciagurato del Sardiano comperò per molti talenti questa risposta a due capi.
Momo. Ah! egli tocca quel tasto che io più temevo, o Dei. Ed ora dov’è il nostro bel chitarrista? Va’, scendi, e difenditi da costui.
Giove. Tu ci ammazzi, o Momo, con questi rimproveri inopportuni.
Timocle. Bada a quel che fai, o scellerato Damide: con cotesti discorsi quasi abbatti i templi degli Dei, ed i loro altari.
Damide. Tutti gli altari no, o Timocle (chè qual male essi fanno se ardono incenso e profumi?); ma quei di Diana in Tauride io vedrei con piacere rovesciati e disfatti, su i quali quella verginella piacesi di quei tali sagrifizi.
Giove. Donde è uscito costui che con una lingua arrotata non risparmia nessun Dio? ei sfringuella dalla carretta,(124) ePiglia in fascio chi ha colpe, e chi non n’ha.
Momo. Ben pochi tra noi, o Giove, troverai senza colpa. E se anderà oltre costui l’appiccherà anche a qualcuno che si tiene capoccia.
Timocle. E non odi neppur Giove che tuona, o nemico degli Dei?
Damide. Come non udire il tuono, o Timocle? Ma se egli è Giove che tuona, te lo sai meglio tu, che forse scendi di lassù dagli Dei.
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