Timocle. Dunque giacchè il paragon della nave non ti è sembrato ben poderoso, odi l’áncora sacra, come dicono; e non la spezzerai questa.
Giove. Che mai dirà?
Timocle. Vedi se questo è sillogismo tirato a filo, e se tu puoi abbatterlo. Se vi sono altari, vi sono anche dei; ma vi sono altari, dunque vi sono dei. Che dici a questo?
Damide. Lasciami prima finire di ridere, e ti risponderò.
Timocle. Ma pare che non cesserai dal ridere. Almeno dimmi in che ti parve ridicolo ciò che ho detto.
Damide. Perchè non t’accorgi che ad un debil filo hai sospesa la tua áncora, ed è la sacra. Avendo legato l’esistenza degli Dei all’esistenza degli altari, credi di aver fatta una corda saldissima. Ma giacchè non hai altro di più sacro a dire, andiamcene.
Timocle. Dunque ti dai per vinto, che te ne vai prima?
Damide. Sì, o Timocle. Tu come i perseguitati, ti sei rifuggito agli altari. Ed io, per cotest’ancora sacra, voglio far teco un sacramento su i tuoi altari, che non contenderemo mai più di questo.
Timocle. Tu mi canzoni, schiuma di scellerato, sozzo cane frustato, feccia, spu, spu! Non si sa chi era tuo padre, ma tua madre era una troia, e tu scannasti tuo fratello, e sei adultero, e corrompi i giovani, pezzo di ghiottone svergognato. Aspetta, che te ne voglio mandare col capo rotto, ti voglio fare schizzar le cervella con questo coccio, infame che sei.
Giove. Quei ride, o Dei, e gli volta le spalle; e questi lo seguita dicendogli villanie, e non può sopportare il disprezzo di Damide, e pare che sì gli voglia fiaccare il capo con un mattone.
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Timocle Damide
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