Come venne l’ora di adagiarci, primamente levaron di peso Tesmopoli un cinque giovani robusti, e con la maggior pena del mondo gli fecero intorno una siepe di cuscini, affinchè potesse rimaner lungo tempo in quella positura adagiato. Nessuno voleva stargli vicino: toccò a me che fui l’ultimo: ed entrambi stemmo ad una mensa. Indi, o Pitagora, cominciò la cena, che fu maravigliosa: vivande assai, e d’ogni sorte, vasellame molto d’oro e d’argento, le tazze tutte d’oro, bellissimi giovani servitori, musici, buffoni, era un paradiso: se non che quel diavolo di Tesmopoli m’aveva proprio fradicio con certi suoi rompicapi su la virtù, e volendomi far capace che due negazioni fanno un’affermazione, che se è giorno ei non è notte, e che talora io avevo le corna, io.(126) E’ mi contava tante storie di filosofia, e mi rubava quel piacere di udire i ceteratori e i cantatori. Ed eccoti, o gallo, come fu la cena.
Il gallo. Non fu molto piacevole per te, o Micillo, che specialmente fosti accozzato con quel fastidioso vecchiardo.
Micillo. Odi ora anche il sogno. Adunque mi pareva che questo Eucrate, essendo senza figliuoli e in punto di morte, avesse mandato per me, e fatto suo testamento, avesse scritto me erede di tutto il suo, e indi a poco fosse morto. Divenuto io signor d’ogni cosa, affondava le mani in gran cassettoni pieni d’oro e d’argento, e spendeva e spandeva, e li trovava sempre colmi: le vesti sue, e le mense, e quelle tazze, e quei servitori, tutto era roba mia, già s’intende. Io stavo sdraiato in un cocchio tirato da due cavalli bianchi, riguardato da tutti ed invidiato: e paggi, staffieri, palafrenieri, gran corteo mi precedeva e mi seguiva.
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