Avevo io indosso il suo robone più bello, e sedici anelli massicci nelle dita, e comandavo s’apparecchiasse uno sfarzoso banchetto per convitarvi gli amici. I quali, nel sogno mi pareva che fossero già venuti; le vivande erano già servite, ed il vino era squisitissimo. Eravamo già alle frutte, e mentre io con una tazza d’oro in mano volevo bere alla salute di tutti gli amici presenti, tu hai mandato quel grido maladetto, che ci ha sconturbato il convito, rovesciate le mense, disperse tutte quelle ricchezze che se le ha portate il vento. Non avevo ben ragione di sdegnarmi teco, io che avrei voluto far durare quel sogno almen per tre giorni?
Il Gallo. Oh, tanto ti piace l’oro, o Micillo, che non ti par bella nessun’altra cosa, e credi che sia felicità l’averne molto?
Micillo. Non io solo, o Pitagora; ma anche tu, quand’eri Euforbo, t’ornavi i capelli con fila d’oro e d’argento: ed andavi a combattere i Greci, ed eri in guerra, dove è meglio portar ferro che oro; e tu allora con la capelliera annodata d’oro ti scagliavi nei pericoli e nelle zuffe. E mi pare che però Omero paragona le tue chiome a quelle delle Grazie, perchè t’intrecciavi i ricci con argento e con oro, e così parevano più belli e più leggiadri i capelli, e lucevano come l’oro col quale erano intrecciati. E passi pure che tu oricrinito, essendo figliuolo di Panto, amassi tanto l’oro. Ma il padre degli uomini e degli Dei, il figliuolo di Saturno e di Rea, quando s’innamorò di quella fanciulla Argolica, non avendo in qual più cara cosa trasformarsi, nè come corromper le guardie di Acrisio, tu sai che divenne oro, e dal soffitto piovve in seno all’amata donzella.
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