Tu? una formica indiana, di quelle che cavano l’oro.(127)
Micillo. Sciocco me! che non pensai a portarmene poche briciolette di quell’oro in questa vita per camparci meglio! E dipoi che sarò io? tu devi saperlo certamente. Se sarà una cosa buona, io m’impiccherò subito a cotesto piuolo sul quale tu stai appollaiato.
Il gallo. Non ci è verso da saper questo. Quando adunque io ero Euforbo (ritorno al proposito) io combattevo a Troja, e, ucciso da Menelao, finalmente venni nel corpo di Pitagora: ma per alcun tempo errai senza dimora, finchè Mnesarco non mi fece la casa.
Micillo. E intanto non mangiavi e non bevevi?
Il gallo. No: questi son bisogni solo del corpo.
Micillo. A proposito di Troja, dimmi: quelle cose furono come Omero le racconta?
Il gallo. E donde egli l’avria sapute, o Micillo, egli che allora era camello nella Battriana? Io ti dico che allora non ci fu nulla di soprannaturale, nè Aiace era di sì gran persona, nè Elena sì bella, come si crede. Io l’ho veduta; era bianca, aveva il collo molto lungo, sì che pareva figliuola d’un cigno, ma era vecchiona, e quasi dell’età di Ecuba; perchè Teseo, che primo la rapì e se la tenne in Afidna, fu ai tempi di Ercole: ed Ercole già aveva presa Troja ai tempi dei nostri padri antichi. Questo me lo raccontava Panto,(128) e mi diceva ch’egli era assai giovanetto quando vide Ercole.
Micillo. Ed Achille era quel gran bravo, perfetto in tutto, o pure anche questa è favola?
Il gallo. Con lui non mi scontrai mai, o Micillo, e delle cose dei Greci non ti saprei dir molto: come saperle, se io ero nemico?
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