Micillo. Questi sono temperati e sennati.
Il gallo. E gli altri vedi, o Micillo, con quanta vergogna cascano: Creso spennacchiato le ali, tra le beffe dei Persiani, sale sul rogo: Dionigi balzato da sì gran regno, fa il maestro in Corinto, ed insegna i fanciulli a compitare.
Micillo. Dimmi, o gallo, tu quand’eri re (m’hai detto che una volta hai regnato) quale ti parve allora quella vita? Certo eri felicissimo, avendo quello che è il primo di tutti i beni.
Il gallo. Non ricordarmene, o Micillo, chè allora io ero misero assai: di fuori parevo a tutti felicissimo, come tu di’, ma dentro io ero straziato da mille affanni.
Micillo. E quali? Tu mi dici cosa strana e da non credersi.
Il gallo. Io regnavo, o Micillo, sovra un paese grande, fertilissimo, per moltitudine di uomini e per bellezza di città mirabilissimo, irrigato da fiumi navigabili, con comodi porti sul mare. Io un esercito numeroso, cavalleria fiorita, guardie non poche, e triremi, e ricchezze assai senza numero, e d’oro molte miniere, e tutta la sfarzosa magnificenza d’un re: onde quand’io usciva, la gente mi adoravano, credevano di vedere un dio, si affollavano per rimirarmi, alcuni salivano su i tetti delle case e tenevano a ventura il poter bene rimirare il mio cocchio, la porpora, il diadema, e tutta la pompa del mio corteo. Ma io che sapevo che dolori avevo dentro di me, perdonavo alla loro ignoranza, ed avevo pietà di me stesso che ero simile a quelle statue colossali fatte da Fidia, da Mirone, o da Prassitele. Queste di fuori sono un Nettuno o un Giove bellissimo, fatto tutto d’oro e d’avorio, col fulmine, o la folgore o il tridente nella destra mano: ma se bassando il capo, le guardi dentro, vedrai sbarre, chiodi, traverse, tronchi, cunei, pece, creta, e molte di tali difformità che vi sono nascoste; senza parlar delle nidiate di topi, e dei ragnateli che vi stanno di casa.
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