Io son morto avvelenato dal mio figliuolo, il quale anch’egli è stato avvelenato dalla sua donna: e forse altri ha avuto simigliante morte.
Micillo. Oh che orrori tu mi conti, o gallo. Per me i’ mi contento meglio di star curvo a tagliar le cuoia, che bere in una tazza d’oro la cicuta o l’aconito portomi da un amico: al più v’è pericolo che il coltello mi sfugga e tagliando m’insanguini un po’ le dita: ma costoro fanno banchetti di morte, e sguazzano tra mille scelleratezze. Quando costoro cadono son simili a quegl’istrioni di tragedia, i quali vediamo talvolta rappresentare Cecrope, o Sisifo, o Telefo, col diadema in capo, con la spada dall’elsa d’avorio, coi capelli rabbuffati, e con la clamide tempestata d’oro; se a un d’essi, come spesso avviene, sfallisce un piede in mezzo la scena, ed ei cade, fa ridere gli spettatori: si rompe la maschera e il diadema, la vera faccia dell’istrione s’ammacca e s’insanguina, ed andando egli con le gambe in aria, compariscono i poveri cenci che stanno sotto la veste, e gli smisurati coturni troppo grandi per un piede. Vedi, o gallo, come hai insegnato anche a me il far paragoni? Ma via: la vita di re ti parve cosiffatta: e quand’eri cavallo, o cane, o pesce, o ranocchio, come ti trovavi in quella condizione?
Il gallo. Cotesto saria un discorso troppo lungo, e non è tempo ora: ti basti questo, che nessuna vita m’e paruta più travagliata di quella dell’uomo, il quale non istà contento a soddisfare i soli naturali desiderii e bisogni. Ei non s’è veduto mai un cavallo usuraio, un ranocchio calunniatore, una cornacchia filosofo, una zanzara cuciniera, un gallo bardassa, o altro animale far gli uffici che fate voi.
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Cecrope Sisifo Telefo
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