Tosto che io feci un po’ di riflessione sulla vita umana, trovai che le ricchezze, le signorie, le grandezze sono instabili, ridevoli, meschine assai: onde sprezzandole, e tenendole come un impaccio a conseguire altre cose veramente serie, io tentai di levar gli occhi in su, e di rimirar l’universo. Ma in prima io tutto mi confusi a contemplar questo che da’ savii chiamasi mondo: non sapevo capacitarmi come è nato, chi l’ha fatto, se ha avuto principio, se avrà fine. E poi considerandone le parti, più cresceva la mia confusione: miravo le stelle disseminate pel cielo, miravo il sole, e mi struggevo di sapere che cosa ei fosse: e massime quel che fa la luna mi pareva una strana e mirabile cosa, e non vedevo perchè ella muta sempre facce; e la folgore così rapida, il tuono così fragoroso, la pioggia, la neve, la gragnuola così veemente, tutte queste cose non potevo spiegarmele, nè trovarne la cagione. Vedendomi adunque così smarrito, i’ pensai che avrei potuto apprender tutto dai filosofi; perchè credevo che essi dovessero sapere e dirmi la verità. E però avendo scelti i migliori tra essi, a quei segni ch’io vedevo, all’austerezza dell’aspetto, alla pallidezza del volto, e alla profondezza della barba (parendomi uomini che parlavano sublime linguaggio, e conoscevano il cielo); io mi misi nelle mani loro; e mediante una buona somma di danari, che parte anticipai, parte promisi dare quando m’avesser fatto filosofo, credetti dover imparare e ragionare di tutte le cose celesti, e dell’ordine dell’universo.
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