Pane. Non mi onorano quanto dovrebbero, e ne speravo ben altro per averli liberati dalla gran battisoffia dei Barbari. Forse un due o tre volte l’anno salgono quassù, e scelto un becco vecchio e fetentissimo, me lo sacrificano: poi essi ne mangian le carni, e io sto a guardarli che scialano e mi onorano di qualche applauso. Ma pure ho un certo gusto agli scherzi e alle pazzie che fanno.
La Giustizia. Ma per altro, o Pane, i filosofi li han renduti più virtuosi, non è vero?
Pane. Chi filosofi dici? Forse quei brutti visi? quei che vanno a truppe? quei che hanno la barba come me, quei chiacchieroni?
La Giustizia. Quelli.
Pane. I’ non so di che parlino, nè capisco la loro filosofia; chè io son montanaro, e non ho mai imparato il parlar pulito che s’usa in città. E poi, o Giustizia, chi saria filosofo o sapiente in Arcadia? Il sapere mio non va più in là del flauto e della siringa, e ancora son capraio, son danzatore, son guerriero ancora se occorre. Li odo sempre gracchiare, e ripetere virtù, idee, natura, incorporei, ed altri nomi strani ch’io non ho mai uditi. Da prima parlan cheti fra loro, ma come va innanzi il ragionamento levan la voce fino ai tuoni acuti, e a furia di contendere e fare a chi più grida, arrossiscon la faccia, gonfiano il collo, ingrossan le vene, come i zufolatori quando si sforzano di sonare un flauto stretto. Si confondono i parlari, si lascia il soggetto della quistione, si dicono grandi villanie l’un l’altro, e si voltano le spalle tergendosi il sudore dalla fronte col dito ricurvo.
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