Oh, non farmi aspettare.
Parassito. Un’arte che forse ti parrà mirabile quando l’udirai.
Tichiade. E tanto più desidero di saperla.
Parassito. Un’altra volta, o Tichiade.
Tichiade. No, dimmela ora, se forse non te ne vergogni.
Parassito. La Parassitica.
Tichiade. Oh! e si può dire, senza essere pazzo, o Simone, che questa sia un’arte?
Parassito. Lo dico io: e se ti sembro pazzo, la pazzia dev’essere la cagione che io non conosco altra arte, e mi discolpa d’ogni accusa. Perchè dicono che la Pazzia è una dea assai molesta a quelli che l’hanno addosso, ma li scagiona dei peccati, i quali, come a maestra o pedagoga, si attribuiscono a lei.
Tichiade. Dunque, o Simone, la parassitica è un’arte?
Parassito. Arte sì; ed io l’esercito.
Tichiade. E tu sei parassito?
Parassito. Bah! grande ingiuria, o Tichiade!
Tichiade. Ma non arrossisci di chiamarti parassito?
Parassito. Niente affatto: mi vergognerei se non fossi chiamato così.
Tichiade. E sì, quando vorremo indicarti a qualcuno che non ti conosce, diremo il Parassito?
Parassito. Molto meglio che se mi chiamaste Fidia lo scultore; chè io non mi compiaccio meno di quest’arte, che Fidia del suo Giove.
Tichiade. Oh, penso ad una cosa, e mi viene a ridere.
Parassito. Quale?
Tichiade. Se anche su le lettere, come si usa, debbo scrivere così: A Simone parassito.
Parassito. Sì, e più mi piacerebbe, che se ci scrivessi: A Dione filosofo.(1)
Tichiade. Che a te piaccia d’essere chiamato così, niente o poco monta: ma bisogna considerare un’altra stranezza.
Parassito.
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