E questo sarà chiaro così. Il sapiente Omero ammirando la vita del parassito, come la sola che sia beata ed invidiabile, dice:
Io dico che non v’ ha fine più lieto,
Che quando tutto un popolo si scioglieIn allegria di giovial banchetto.
. . . . . . . . . traboccano le menseE di pane e di carni; dai crateri
Il coppiere versando il pretto vino,
Va intorno, e ricolma ampi boccali.
e come se non bastasse questa sua maraviglia, chiarisce meglio il suo pensiero, dicendo benissimo:
di questa cosaPare al mio cuor non sia cosa più bella.
E vuol dire che non crede ci sia altra felicità che vivere da parassito. E non mette queste parole in bocca ad un uomo volgare, ma al più savio dei Greci. Eppure se Ulisse voleva lodare il fine degli stoici, poteva dire così quando ricondusse Filottete da Lenno, quando devastò Ilio, quando rattenne i Greci fuggenti, quando entrò in Troia, essendosi prima flagellato da sè stesso e ricoperto di brutti e stoici cenci; ma allora non parlò affatto di questo più lieto fine. Anzi anche quando faceva quella vita d’epicureo presso Calipso, e viveva in ozio e in morbidezze, e trescava con la figliuola di Atlante, e dimenavasi in molli abbracciamenti, non disse mai che quella vita era il più lieto fine, ma la vita del parassito. E si chiamavano convivanti i parassiti allora. Oh! come dice? Son degni di ricordarsi un’altra volta quei versi; chè non si può udirli e non ripeterli spesso:
Convivanti . . . . . seduti in fila.
. . . . traboccano le menseE di pane e di carni . . . . . . .
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