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      Ed Epicuro senza una vergogna ha rubato il fine della parassitica, e ne fa il fine di quella sua felicità. Che in questa faccenda ci sia furto, e che il piacere non sia roba di Epicuro, ma del parassito, puoi vederlo così. Io stimo che il piacere sia, corpo senza malanni, ed animo senza affanni e senza pensieri. Ora il parassito ha l’una cosa e l’altra, ed Epicuro nè l’una nè l’altra. Perchè chi va strolagando sempre su la figura della terra, su l’infinità dei mondi, la grandezza del sole, le distanze, i primi elementi, e su gl’iddii se vi sono o non vi sono, e per il fine si bisticcia sempre e si accapiglia con gli avversarii, ei si piglia non pure gl’impacci di questo mondo quaggiù, ma di quelli lassù. Per contrario il parassito credendo che il mondo vada bene, e persuaso che non possa andare meglio che va, con tutta sicurezza e tranquillità, senza darsi nessun pensiero, mangia, e dorme sdraiato alla supina con le mani e i piè distesi, come Ulisse sul ponte della nave tornando a casa. Nè solamente per queste ragioni il piacere non appartiene ad Epicuro, ma per altre ancora. Questo Epicuro che mi fa il filosofo, o ha da mangiare, o non ha: se non ha, altro che vivere piacevolmente, ei non vivrà affatto: se poi ha, o ha del suo o dell’altrui: se ha mangiare dell’altrui, è parassito, e non come ei si chiama; e se del suo, non vivrà piacevolmente.
      Tichiade. Come non piacevolmente?
      Parassito. Perchè se ha mangiare del suo, egli ha molti fastidi, che necessariamente accompagnano questa vita.


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Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini
Volume Terzo
di Lucianus
Edizione Le Monnier Firenze
1862 pagine 448

   





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