Solone. Se ora, o Anacarsi, fossero i giuochi olimpici, o gl’istmici, o le panatenee, vedresti col fatto che noi non abbiamo il torto a pregiarli. Nessuno così a parole potrebbe farti immaginare il piacere che tu ne avresti; ma se tu sedessi in mezzo agli spettatori, e rimirassi la fortezza de’ giovani, la bellezza de’ corpi, le fattezze mirabili, le destrezze grandi, la forza invincibile, l’ardire, la gara, il volere indomabile, gli sforzi che addoppiano per ottenere la vittoria; oh, ti dico io, che tu non cesseresti di lodare, d’esclamare, d’applaudire.
Anacarsi. Sì, o Solone, e di ridere, e di farmene beffe. Tutte coteste cose che m’hai annoverate, la fortezza, la bellezza, le fattezze, e l’ardire io vedo che voi le sciupate non adoperandole per una cagione grave, per la patria in pericolo, per il paese devastato, per gli amici e i parenti oltraggiati. Onde più e più mi fan ridere cotesti tuoi prodi e belli, che sprecano indarno la loro prodezza, e bruttano la bellezza della persona con l’arena e coi lividori, per aver dopo la vittoria poche poma, e un ramoscel d’oleastro. Io non posso dimenticarmi di questa nuova specie di premii. Ma dimmi, tutti gli atleti hanno questi premii?
Solone. No: uno solo, il vincitore fra essi.
Anacarsi. O Solone, e per una vittoria ancora incerta si affaticano tanto, sapendo che uno solo sarà il vincitore, e tutti i vinti avranno senza alcun pro toccate percosse e ferite?
Solone. Mi pare, o Anacarsi, che tu non hai considerato mai quale sia il retto ordinamento d’una città; chè non biasimeresti così le più belle usanze.
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