Tanto può la bugia!
Filocle. Eppure i poeti, o Tichiade, e le città sariano scusabili, perchè i poeti mescolano nei loro scritti l’attrattiva bellezza della favola per cattivarsi gli ascoltatori; e gli Ateniesi, i Tebani, e gli altri popoli rendono più venerande le loro patrie con queste finzioni. Se si togliesse di Grecia queste favole, quei che le contano si potrian morire di fame, chè i forestieri non vorrebbono udire il vero neppure gratuitamente. Coloro poi che senza una cagione simigliante si piacciono della bugia, ben meritano dispregio da tutti.
Tichiade. Sì: ed io ora vengo da quel valentuomo di Eucrate, che m’ha contato cose grandi di miracoli e di favole. Non ne potevo più, e me ne sono fuggito come se avessi avuto le furie alle spalle, mentr’egli contava ancora prodigi e stupori.
Filocle. Eppure, o Tichiade, Eucrate è uom degno di fede, e non si crederia mai che egli di sì gran barba, di sessant’anni, e di tanto studio in filosofia, sofferisse di udire da altri una bugia, non che usasse di dirne egli alcuna.
Tichiade. Tu non sai, o amico mio, quante ne ha dette, come voleva farle credere, come giurava ed attestava pe’ figliuoli che erano lì presenti: onde io lo guatavo, e non sapeva che pensare, se egli allora era pazzo e fuori del suo naturale, o se egli è stato sempre un impostore, ed io da tanto tempo non m’ero accorto che è una ridicola scimmia vestita d’una pelle di lione. Sì grosse le sparpagliava!
Filocle. Dimmi, per Vesta, che contava egli, o Tichiade? Chè io voglio conoscere quanta ciurmeria ei ricopre sotto quella barba.
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