Poco dopo che Glaucia, mortogli il padre, divenne padrone assoluto del suo, s’innamorò di Criside figliuola di Demeneto. Io ero suo maestro in filosofia; e se quell’amore non me lo avesse sviato, egli ora saprebbe tutta la dottrina del Peripato; chè di diciotto anni sapeva l’analisi, ed aveva percorsa la fisica tuttaquanta; ma perduto di questo amore, confidò a me le pene sue. Io, come conveniva a maestro, gli conduco a casa quel mago iperboreo, al quale ei diede quattro mine subito (chè qualche cosetta si doveva anticipare pei sacrifizi), e ne promise altre sedici, se giungesse ad avere la Criside. Il mago, aspettata la Luna piena (chè allora quest’incantesimi riescono meglio), cavò una fossa in un atrio della casa, e a mezza notte ci chiamò prima Alessicleo, il padre di Glaucia, morto da più di sette mesi: era assai sdegnato il vecchio per questo amorazzo, e infuriava, ma infine dovette chetarsi e consentire. Poi tirò su dall’inferno Ecate che conduceva Cerbero, e fece scender giù la Luna che ci apparve in molte forme diverse, prima prese aspetto di donna, poi divenne una giovenca bellissima, poi si cangiò in cagna. Infine l’Iperboreo, rappallottolato un Amorino di creta, Va’, disse, e menaci Criside. L’amorin di creta volò: ed indi a poco ecco battere alla porta, ed entrare la giovane, che come pazza d’amore abbraccia Glaucia, e stassi con lui fino a che udimmo cantare i galli. Allora la luna rivolò in cielo: Ecate sprofondò sotterra, tutto le fantasime sparirono, e noi rimenammo Criside a casa che quasi rompeva l’alba.
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