Se tu avessi vedute queste cose, o Tichiade, ti dico io che ora crederesti nella virtù degl’incantesimi.
Sì, dissi, le crederei se le vedessi; per ora perdonatemi se non ho la vista acuta come la vostra. Ma io la conosco cotesta Criside, l’è una donnetta amorosa e facile, e non vedo a che bisognava per lei un ambasciatore di creta, un mago iperboreo, e la Luna stessa, se con venti dramme la puoi menare sino agl’Iperborei. A quest’incantesimo si cala ella, tutto al contrario delle fantasime: le quali al suonare del bronzo o del rame fuggono, come voi dite, ed ella al tintinnir dell’argento gettasi. Ma mi fa maraviglia il mago, che potendo farsi amare dalle più ricche donne, ed averne talenti assai, si adopera per quattro mine rognose a cavare una voglia amorosa a Glaucia.
Tu così ti rendi ridicolo, disse Jono, non credendo a nulla. Ma io ti dimanderei che dici tu di quelli che liberano gli ossessi, e pubblicamente scongiurano le fantasime. Non sono cose che le dico io, ma tutti sanno quel Siro di Palestina, dottissimo in questo, il quale come s’avviene in coloro che cadono per mal di Luna, e distorcono gli occhi, e cacciano schiuma dalla bocca, ei li rileva, e per una buona mercede li manda sani e liberi dal male. Quando ei si avvicina ai giacenti, e dimanda come il demone è entrato nel corpo, l’ammalato tace, ma il demone risponde in greco o in barbaro come e donde egli è entrato in quell’uomo: ed egli con iscongiuri, e, se non ubbidisce, con minacce scaccia il demone. Io stesso ne vidi uscire uno tutto nero ed affumicato.
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