Bene, diss’io, anche Ippocrate, che fu medico, vuole sacrifizi, e si sdegna se al tempo stabilito non si fa una scialata delle migliori vittime: eppure ei dovrebbe star contento a qualche libazione funebre, a un po’ d’acqua e mele, e ad una corona postagli in capo.
Odi ora questo, disse Eucrate, che vidi cinque anni fa, e ne ho testimoni. Era tempo di vendemmia: ed io verso mezzodì, lasciando i lavoratori a vendemmiare, soletto me ne andai in un bosco a passeggiare pensando e strologando non so che cosa. Come fui nel più folto, udii da prima un abbaiar di cani; e credetti che Mnasone mio figliuolo, che soleva sempre divertirsi alla caccia, fosse venuto coi compagni in quella boscaglia. Ma non era così: dopo un poco ecco un tremuoto, ed una gran voce come di tuono, e vedo venirmi incontro una donna terribile, alta quasi un mezzo stadio, con una face nella mano destra, e nella sinistra una spada lunga venti cubiti: all’ingiù aveva serpenti per piedi, e all’insù era simile alla Gorgone per la terribilità dell’aspetto, e invece di capelli aveva groppi di serpi che le si avvolgevano intorno al collo, ed alcuni le si attortigliavano anche intorno agli omeri. Vedete, o amici, come io raccapriccio mentre ve lo racconto?
E così dicendo Eucrate mostrava i peli delle braccia rizzati per la paura: Jono, Dinomaco, e Cleodemo, a bocca aperta stavano fisi ad ascoltarlo, poveri vecchiardi menati pel naso, quasi adorassero lo strano colosso, il donnone di mezzo stadio, lo spauracchio di quella gigantessa.
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