Tanto fermamente credeva che le anime uscite del corpo non sono più nulla.
Ciò che tu dici, rispose Eucrate, prova che Democrito era uno stolto se la pensava così. Vi racconterò io un altro caso avvenuto a me, non narratomi da altri. Forse anche tu, o Tichiade, sarai sforzato dalla verità del racconto. Quando nella mia gioventù, io ero in Egitto, dove mio padre mi aveva mandato a studiare, mi venne vaghezza di rimontare a Copto, e di là andare a vedere la statua di Mennone, per udire quella gran maraviglia dei suoni che ella manda al levarsi del sole. E la udii mandare non un suono inarticolato come tutti l’odono, ma Mennone aprì la bocca e mi diede un oracolo in sette parole: e se non fosse soverchio i’ ve le direi quelle parole. Nel rimontare il fiume si trovò a navigar con noi un uomo di Menfi, uno dei sacri scribi, mirabile per sapienza, e dotto in tutta la dottrina egiziana. Dicevano che egli era stato ventitre anni negli aditi sotterranei, e aveva imparata la magia da Iside. - Questi è Pancrate, disse Arignoto, il mio maestro: un sacerdote, tutto raso, vestito di lino, pensoso, parlante bene il greco, di alta statura, col naso schiacciato, le labbra sporte, le gambe sottili.
È desso, rispose, è Pancrate. Da prima non sapevo chi ei fosse; ma poi che lo vidi, quando la barca approdava, far maraviglie grandi, cavalcar coccodrilli, con un richiamo ragunar le belve che l’ubbidivano e lo carezzavano brandendo le code, io m’accorsi che era un uomo divino. Gli feci cortesia, me gli avvicinai, e a poco a poco gli divenni amico ed intrinseco, per modo che mi confidò tutti i segreti suoi, ed infine mi persuase a lasciare tutti i miei servi in Menfi, e andare solo con lui, dicendomi che di servitori ne avremmo assai.
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