Evoè; che forse così si chiamava quel loro signore. E che già quelle femmine rapivano le greggi, e squartavano gli agnelli, e se li mangiavano vivi vivi. Udendo questo racconto gl’Indiani ed il loro re si messero a ridere naturalmente, e stimarono di non uscire a scontrarle e combatterle; ma se si avvicinassero di più, mandarvi le loro femmine: chè per essi pareva una vergogna vincere femmine pazze, e quel capitanessa mitrato, e quel vecchiotto ubbriaco, e quel mezzo soldato, e quei ballonzatori nudi, tutta gente da riso. Ma poi che vennero le nuove che il dio devastava il paese, bruciava le città con tutti gli abitanti, incendiava le selve, e in breve tempo aveva empiuta tutta l’India di fuoco (chè il fuoco è arme di Bacco, e l’ebbe dal fulmine paterno), allora in fretta presero le armi, e messe barde e freni agli elefanti, e caricatili delle torri, uscirono ad oste, disprezzanti anche allora, ma irritati e bramosi di mettersi sotto i piedi quell’esercito e quello sbarbatello di capitano. Come furono dappresso e a vista, gl’Indiani, schierati gli elefanti in prima fila, fecero avanzar la falange: Bacco stava egli al centro, Sileno guidava l’ala destra, e Pane la sinistra. Alle squadre ed alle bande erano assegnati i satiri; il contrassegno per tutti, l’evoè. Tosto il picchiar de’ timpani e lo strepitar dei cembali suona a battaglia, un satiro piglia un corno e manda un acutissimo squillo, l’asino di Sileno dà un bellicoso ragghio, e le Menadi ululanti si scagliano all’assalto, cinte di serpenti, e dalle punte dei tirsi sfoderando il ferro.
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