Quel Tersite adunque così scontraffatto, se vestisse l’armi di Achille, credi tu che però diventerebbe subito bello e gagliardo? che salterà la fiumana, e ne intorbiderà la corrente con la strage de’ Frigi, ucciderà Ettore, e prima di costui Licaone ed Asteropeo, ei che non può neppure portare sugli omeri la frassinea lancia? No dirai: ma desterà riso a zoppicare sotto lo scudo, a cadere di muso a terra per il peso, a mostrare, levando la fronte sotto l’elmo, quei suoi occhi guerci, alla corazza sollevata per la gobba che ha dietro le spalle, allo strascico degli stinieri, alla vergogna insomma che ei fa all’artefice ed al signore di quelle armi. La stessa cosa non vedi che accade anche a te, quand’hai in mano un libro bellissimo, in pergamena porporina, e con borchie d’oro, e tu lo leggi in modo barbaro, guastando, e storpiando, schernito dai dotti, lodato dagli adulatori che ti accerchiano, e che talvolta anch’essi si sguardano tra loro e se la ridono?
Voglio contarti un fatto avvenuto in Delfo. Un Tarantino, a nome Evángelo, della nobiltà di Taranto, aveva gran voglia d’una vittoria nei giuochi Pitii. Mettersi nudo a qualche cimento vide tosto che non era per lui, non essendo nè a forza nè a celerità naturalmente atto; ma che egli vincerebbe facilmente alla cetra ed al canto, se ne lasciò persuadere da certi ribaldi che gli erano intorno, e che lodavanlo e schiamazzavano ad ogni po’ che ei toccava le corde. Venne adunque in Delfo, tutto sfarzoso, in vestone di broccato d’oro, con una corona di lauro d’oro bellissima, e che invece delle orbacche aveva smeraldi grossi quanto esse coccole.
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