E contano che gli disse: O Evángelo, tu sei cinto di lauro d’oro, perchč sei ricco, ed io, che son povero, del delfico: ma tu col ricco arnese ci hai guadagnato questo, che te ne vai neppur compatito per la sconfitta, anzi di piů odiato per la tua imperizia e cotesto inutile sfarzo. A capello ti va questo Evángelo, se non che tu non ti curi neppure un fico del riso degli spettatori.
Non sarŕ fuori di proposito che io ti racconti anche un’antica favola Lesbia. Quando Orfeo fu sbranato dalle donne di Tracia, č fama che il suo capo caduto con la lira nell’Ebro, fu portato nel nereggiante golfo, e che la testa andava galleggiando vicino alla lira, e cantava un lamento sul caso d’Orfeo, mentre la lira sonava pe’ venti che movevano le corde: e cosě cantando arrivarono a Lesbo dove quelle genti, preso quel capo, lo seppellirono dove oggi č il loro tempio di Bacco, e la lira appesero nel tempio d’Apollo, dove fu serbata lungamente. Con l’andare del tempo Neanto, figliuolo del tiranno Pittaco, avendo udito che quella lira aveva ammollito le fiere e le piante e i sassi, e che dopo la morte di Orfeo nessuno l’aveva tocca e fatta sonare, s’accese del desiderio di possederla, e corrotto il sacerdote con molti doni, lo indusse a sostituire un’altra lira simigliante, e dargli quella d’Orfeo. Avutala, pensň di bene non convenire usarla di giorno in cittŕ, ma la notte se la messe sotto il mantello, e soletto se ne uscě nei sobborghi; dove arrecatasela fra le mani si diede a strappare e strapazzar le corde l’ignorante e sciocco giovane; il qual s’era immaginato che la lira da sč doveva mandare una divina melodia da carezzare e indolciare tutti, e che egli sarebbe il beato erede della musica d’Orfeo: finchč si raccolsero i cani a quella zolfa (che quivi eran molti), e lo fecero a brani.
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