Il che parmi che debba avvenire ancora a chi fra così belle opere di arte vuol dare un saggio di eloquenza: imperocchè fra tante bellezze la parola si nasconde, s’oscura, si perde, come se uno mettesse una lucerna in un grande incendio, o una formica sopra un elefante od un cammello. A questo deve badare un dicitore. Inoltre si turba la voce di chi parla in così risonante ed echeggiante sala, la quale ripete, respinge, ribatte, anzi ricopre la voce, come fa la tromba al flauto se suonano insieme, o il mare ai rematori quando nel furiare della tempesta col canto si animano scambievolmente a vogare: chè il gran rumore opprime e non fa udire il piccolo. Di quello poi che dice l’avversario che la bella sala sveglia il dicitore e lo rende più voglioso, a me pare che faccia il contrario; perchè sgomenta, atterrisce, turba la mente, ed avvilisce il pensare che è una gran vergogna se, come il luogo, non parrà bello anche il discorso. Manifestissimo così è il biasimo, come se uno vestito di armi bellissime fuggisse innanzi agli altri, farebbe la sua viltà più palese per le armi. E questo parmi che fu inteso anche da quell’oratore d’Omero che non badava punto alla apparenza, anzi stava in sembianza d’uomo zotico, affinchè paresse più ammirabile la bellezza del suo discorso pel paragone di quel rozzo aspetto. E poi la mente del dicitore deve necessariamente occuparsi dello spettacolo, e sviarsi dalla diligente attenzione, perchè il vedere la vince, la chiama a sè, e non le permette di badare al discorso: onde come si potrebbe non discorrere male quando l’anima è distratta da veduta piacevole?
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Omero
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