Credo che anche voi due, tu e Samippo, non per altro siete usciti di città che per vedere il naviglio.
Licino. Sì, veramente: ed era con noi anche Adamanto di Mirrina: ma non so dove sia, e si sarà smarrito nella folla. Fino alla nave siamo venuti insieme, e montando in essa, tu, credo, o Samippo, andavi innanzi, dopo di te Adimanto, poi io che con ambo le mani mi teneva a lui: e per tutta la scala egli m’ha guidato e sostenuto con la mano, essendo io calzato ed egli scalzo. Da allora in poi non l’ho veduto più, nè dentro la nave, nè dopo che siamo discesi.
Samippo. Sai, o Licino, dove ci ha lasciati? forse quando è uscito del camerotto quel bel giovanetto, vestito di lino schietto, coi capelli legati indietro e cascanti in due trecce su le tempie. Io conosco Adimanto, io: a veder quel leggiadro, ha piantato l’egiziano che ci guidava e ci mostrava il naviglio, ed è andato a far gli occhi imbambolati al suo solito: chè egli l’ha al suo comando la lagrimetta amorosa.
Licino. Eppure non mi è paruto sì bello, o Samippo, quel garzonetto da fare gran colpo in Adimanto, che in Atene ne ha tanti belli, che gli vanno attorno, tutti liberi, di grazioso parlare, che odorano di palestra, vicino ai quali non è vergogna l’imbambolarsi. Costui è brunastro, con le labbra sporgenti, con le gambe sottili, e parlava col naso, a singhiozzi, prestissimo, greco sì, ma col tuono e l’accento del suo paese. E poi quella chioma e quel ciuffo raccolto in su, non lo dicono libero.
Timolao. Anzi, o Licino, quella chioma è segno di nobiltà fra gli egiziani.
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