Tutti i giovanetti liberi la portano a quella foggia sino alla pubertà. Al contrario i nostri maggiori credevano che la chioma stesse bene ai vecchi soli, e raccoglievano ed abbellivano i capelli con una cicala d’oro.
Samippo. Bene, o Timolao, tu ci fai ricordare delle storie di Tucidide, e di ciò che nel proemio egli scrive dell’antico lusso dei nostri nella Ionia, quando vennero qui ad accasarsi.
Licino. Ah, ora mi ricorda, o Samippo, a che punto ci ha lasciati Adimanto: quando siamo stati un pezzo vicino all’albero a riguardare e contare le pelli che forman la vela, a maravigliarci di quel marinaio che s’arrampicava pel sartiame, e poi correva svelto su per l’antenna tenendosi ai canapi che la governano.
Samippo. Ben dici: ma ora che si fa noi? l’aspettiamo, o vuoi che io torni per lui su la nave?
Timolao. No, camminiamo: forse egli ha trottato innanzi, e già è giunto in città, poi che non ha potuto trovarci. E se no, la via Adimanto la sa, e non c’è paura che senza di noi ei si sperda.
Licino. Badate che non sia una scortesia lasciare un amico ed andarcene. Ma se anche Samippo vuole così, camminiamo.
Samippo. Io vorrei che noi potessimo trovare la palestra ancora aperta. Ma giacchè siamo su questo discorso, che nave, eh? Centoventi cubiti di lunghezza diceva la guida, e più che trenta di larghezza; e dalla coperta alla stiva, dove è più profonda la sentina, ben ventinove. E poi che corpo di albero! che antenna esso sostiene! che canapo lo tiene a prua! Come la poppa si rialza con dolce curvatura sormontata da un paperino dorato!
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