Troppa boria, o Adimanto: e non ti sputi in seno? da che sei diveduto padron di barca, tu non sei più tu: ti sei troppo gonfiato per la casa fabbricata in un bel sito della città, e per il codazzo dei servitori. Deh per la tua Iside, ricordati, o caro, di portarci d’Egitto quei pesciolini salati del Nilo, o dell’unguento di Canopo, o un ibi di Menfi, e, se la nave può, una delle piramidi.
Timolao. Via, basti la celia, o Licino. Vedi come hai fatto far rosso Adimanto: gli hai inondato di motti il naviglio, sì che non può aggottare, nè resistere alla piena. Ma giacchè ci resta ancor molto cammino sino alla città, dividiamolo in quattro parti, e durante gli stadii che toccheranno a ciascuno fabbrichiamoci un castello, cerchiam dagli Dei ciò che ci pare. Così non sentiremo stanchezza, e ci spasseremo quasi volontariamente sognando quanti piaceri e felicità vogliamo. Ciascuno se lo fabbrichi a suo talento: pognamo che gli Dei ci diano ogni cosa, anche l’impossibile. Il meglio è che così si vedrà chi saprebbe usar meglio delle ricchezze, o di altro che ei desidera; e dimostrerà chi diventerebbe egli, se arricchisse.
Samippo. Benissimo, o Timolao: approvo; e quando toccherà a me farò il mio castello. Se Adimanto vuole non bisogna dimandarglielo, chè egli ha già un piede nella nave: ma deve piacere anche a Licino.
Licino. Sì, diventiamo pur ricchi, se questo è il meglio: io non voglio parere invidioso del bene comune.
Adimanto. Chi dunque comincerà?
Licino. Tu proprio, o Adimanto; poi Samippo, appresso Timolao; io poi pel mio castello mi prenderò quel piccolo mezzo stadio che è innanzi al Dipilo, e mi sbrigherò alla meglio.
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