Io poi quando mi piacerà uscirò raggiante come il sole, e a molti non getterò neppure uno sguardo; ma se vedrò un povero, come ero io prima del tesoro, i’ gli farò carezze, lo inviterò a venire dopo il bagno a cenar meco: i ricchi creperanno a veder cocchi, cavalli, e tanti bei donzelli, più di duemila, d’età floridissima. Dipoi su la mia tavola tutto il vasellame è d’oro (l’argento è vile e non da me); v’è salumi d’Iberia, vino d’Italia, olio anche d’Iberia; mele nostrale ma cavato senza fuoco, vivande d’ogni parte del mondo, e cinghiale, e lepre ed ogni maniera di pollame, l’uccello del Fasi, il paone d’India, il gallo di Numidia: e cuochi spertissimi in tutti i punti saran sempre sul fare intingoli e savori. Se io dimando un bicchiere o una tazza e invito uno a bere, chi vuoterà la tazza se la prenderà. I ricchi moderni rispetto a me son tutti Iri e pitocchi: e Dionico non mostrerà più per una spampanata nelle processioni il suo desco e il suo bicchiere d’argento, vedendo che i servi miei l’argento lo buttano. Alla città poi farò larghezze grandi: un donativo ogni mese, cento dramme per uno ai cittadini, la metà ai forestieri: per abbellirla farò teatri e bagni pubblici; venire il mare sino al Dipilo; essere qui il porto, e portarvi l’acqua per un gran canale; acciocchè la mia nave approdi proprio innanzi il mio palazzo, e sia veduta dal Ceramico. Per voi altri miei amici io ho ordinato al mio siniscalco di misurar venti medinni di monete d’oro a Samippo, cinque sestieri a Timolao, ed a Licino uno e raso, perchè è un chiacchierone, e vuol sempre la baia del fatto mio.
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