Dopo la morte sua vendei le tanaglie, l’incudine e il martello per due mine, e così campammo: poi ora col tessere, ora col filare o col torcere la lana, abbiamo avuto da mangiare appena. Ma io allevavo te, o figliuola mia, e aspettavo con questa speranza.
Corinna. Della mina dici?
Ciuffetta. No: ma pensavo che tu fatta grande darai vivere a me, e tu farai subito la signora, sarai ricca, avrai vesti di porpora, e serve.
Corinna. Ma come, o mamma, che dici?
Ciuffetta. Congiungendoti coi giovanotti, cenando e dormendo con essi buscherai be’ danari.
Corinna. Come Lira la figliuola di Dafnida?
Ciuffetta. Sì.
Corinna. Ma ella è cortigiana.
Ciuffetta. E che male c’è? Anche tu sarai ricca, come lei, ed avrai molti amatori. Ma perchè piangi, o Corinna? Non vedi quante fanno le cortigiane, e come son carezzate, e quante ricchezze hanno? I’ mi ricordo Dafnida, non sia detto per male, prima che fosse cresciuta la figliuola, con un po’ di cencerello intorno: ed ora vedila come va, oro, vesti ricamate, e quattro serve.
Corinna. Ma come ha acquistato tanto la Lira?
Ciuffetta. Prima col mostrarsi pulita, garbata, pronta, allegra con tutti, non fino ad isganasciarsi di risa per niente, come fai tu, ma con un sorriso dolce ed aggraziato: poi con le buone maniere nel trattare, senza canzonare chi le si avvicina, o chi le manda un’ambasciata, e senza innamorarsi degli uomini. Se mai va a qualche banchetto facendosi ben pagare, ella non s’imbriaca (oh, questo è brutto assai, e gli uomini abborriscono le bevone), non si riempie di vivande come una scostumata, ma le tocca con le punte delle dita, non mette il capo sotto, e senza parlare macina a due gote; beve a poco a poco, non d’un fiato, ma a sorsi.
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