Arditamente adunque, io sviluppatomi dagli amici che mi trattenevano.... -temevano per me, vedendo quel barbaro tutto rilucente nelle armi dorate, che aveva uno spennacchio terribile, e squassava la lancia.....
Chenida. Anch’io temei allora, o Leontico, e ti ricordi come ti pregavo di non metterti a quel pericolo: chè se morivi tu, volevo morire anch’io.
Leontico. Ma io arditamente esco in mezzo armato di tutto punto come il Paflagone, e tutt’oro anch’io. Tosto si levò un grido dai nostri e dai barbari, i quali mi riconobbero allo scudo, alle bardature, allo spennacchio. Di’, o Chenida, a chi m’assomigliavano tutti allora?
Chenida. A chi? Ad Achille; sì, al figliuolo di Teti e di Peleo: così ti stava bene l’elmo in testa, la porpora ti era dipinta al corpo, e lo scudo sfolgorava.
Leontico. Poi che venimmo a fronte, il barbaro prima ferisce me, sfiorandomi un po’ con la lancia alquanto sopra il ginocchio: ma io trapassatogli lo scudo con la sarissa gli sprofondo il petto, e poi gli vo sopra, gli tronco netto il capo con la spada, gli prendo le armi, e me ne torno, portando il capo infilzato su la sarissa, che mi lordava di sangue.
Innide. Va, va, o Leontico: che sozzure ed orrori mi conti! E chi ti vuol guardare in faccia, quando ti piace tanto il sangue? chi vuole più bere e corcarsi con te? I’ me ne vado, io.
Leontico. Ti darò il doppio del patto.
Innide. I’ non potrei mai dormire con un omicida.
Leontico. Non temere, o Innide: le son cose fatte tra’ Paflagoni: ora io sono pacifico uomo.
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