Come io venni in Elide ed entrai nel ginnasio, udii un cinico che con un’aspra vociaccia sparpagliava le più sciocche e rifritte cose intorno alla virtù, e lacerava tutto il mondo, e dopo molte grida uscì a parlare di Proteo. Tenterò, come posso, di riferirti ciò che ei diceva: tu ti ricorderai certamente che spesso hai udito di tali gridatori. «Chi ardisce, diceva, di chiamar Proteo un vanitoso? o terra, o sole, o fiumi, o mare, o Ercole signor nostro! Proteo, che fu prigione in Siria, che lasciò alla patria cinquemila talenti, che fu scacciato da Roma, che è più chiaro del sole, che potrebbe stare al paragone anche con Giove Olimpio? Perchè s’è deliberato di uscir di vita per mezzo del fuoco, però alcuni lo biasimano di vanagloria? Ed Ercole non ne uscì per fuoco? ed Esculapio e Bacco per fulmine? Ed Empedocle non morì nel vulcano?» Mentre Teagene (così chiamavasi quel gracchiatore) diceva queste cose, io dimandai ad uno che m’era vicino: Che storie son queste di fuoco, di Ercole, di Empedocle, e che han che fare con Proteo? E quei risposemi: Fra breve Proteo si brucerà in Olimpia. Oh, e perchè? diss’io. E mentre quei provava di rispondermi, il Cinico mugghiava, e non c’era verso ch’io potessi udire altro che lui; onde m’acconciai ad udire quelle gran parole che ei versava a bigonce, e le sperticate lodi che dava a Proteo; nè Diogene nè il suo maestro Antistene potevano paragonarsi a lui, e neppur Socrate; ma ei sfidava a stargli a fronte Giove stesso. Poi gli parve di farli eguali tutti e due, e terminò discorso così: «Il mondo ha veduto due maraviglie, Giove Olimpio e Proteo: quello fu un miracolo dell’arte di Fidia, questo della natura.
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