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      Quelli sdegnaronsi, mi dissero villania, ed alcuni già levavano i bastoni: ma poi ch’io li minacciai di afferrarne un paio e mandarli dietro al maestro nel fuoco, s’acchetarono senz’altro.
      Mentre io me ne tornavo, andavo ripensando tra me: Che gran passione è cotesto amor della gloria, dal quale se non possono guardarsi anche gli uomini più stimabili, molto meno potè quest’uomo vissuto disordinatamente, e da pazzo, e degnissimo del fuoco. Scontravo molti che venivano anch’essi a vedere, credendo di trovarlo vivo, perchè il giorno innanzi era corsa voce che egli si saria gettato nella pira dopo di aver salutato il sole nascente, secondo si dice che fanno i Bramani. Io li facevo tornare, dicendo loro che tutto era finito: ed essi non si curavan d’altro, nè di vedere il luogo, nè di prendersi qualche reliquia del rogo. E qui, o amico mio, io ebbi un gran fare a contare a tutti come era stato il fatto, ed a rispondere a mille dimande. Se vedevo qualcuno che m’aveva un po’ di viso d’uomo, gli narrava schietto il fatto, come l’ho narrato a te; ma se mi capitavano dei gonzi e che m’udivano a bocca aperta, io ci mettevo un po’ di ciarpa, e dicevo che quando la catasta bruciava, e Proteo vi si gettò, s’intese un gran terremoto con un rombo sotterraneo, ed un avoltoio volando dal mezzo della fiamma verso il cielo aveva profferito con una gran voce umana queste parole: Lascio la terra, e me ne salgo al cielo. E quelli allibbivano, e tutti tremanti facevano atti di adorazione, e mi dimandavano se l’avoltoio era volato a levante o a ponente: ed io rispondeva ciò che mi veniva in capo.


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Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini
Volume Terzo
di Lucianus
Edizione Le Monnier Firenze
1862 pagine 448

   





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