E primamente come io giunsi non mi fecero grandi accoglienze i Greci, nè mi ributtarono: ma a poco a poco io coi miei ragionamenti mi tirai fra tutti quanti sette compagni e discepoli, ed uno di Samo, uno di Efeso, uno d’Abdera(89) affatto pochi. Dopo di questi intorno mi pullulò, non so come, una turba di sofisti, che non mi amava davvero, nè del tutto mi abborriva, ma come la razza degl’Ippocentauri era un composto, un misto d’impostura e di filosofia, non interamente accecati dall’ignoranza, e non capaci di tenere gli occhi fissi in me, ma come i loschi per la debolezza della vista vedevano talvolta un’indistinta e scura mia immagine od ombra, si credevano di conoscere benissimo ogni cosa. Quindi tra essi venne in voga quella sapienza inutile e soverchia, e, come essi la tenevano, invincibile, quelle accorte, dubbie e strane risposte, e quelle intricate e ravviluppate dimande. Attraversati e biasimati dai miei amici, si sdegnarono, congiurarono contro di loro, li condussero innanzi ai tribunali, e li spinsero sino a bere la cicuta. Dovevo forse fin d’allora fuggirmene subito, e non istarmi più con essi; ma prima Antistene e Diogene, e poi Crate e Menippo mi persuasero a rimanervi un altro poco. Non doveva farlo: chè dipoi non avrei inghiottiti tanti bocconi amari.
Giove. Non mi dici ancora, o Filosofia, quali offese hai avute, ma ti sdegni solamente.
La Filosofia. Odi, o Giove, quali sono. Una razza di ribaldi, per lo più di servi e di mercenarii, non usati con me da fanciulli per altre loro occupazioni; perchè o servivano, lavoravano a mercede, o esercitavano altre arti che questi tali sogliono, come quella del ciabattino, o del fabbro, o di purgare, o di scardassare le lane per renderle più maneggevoli alle donne e più facili a filare e stenderle sottili, quando tirano la trama sul filatoio, o filano il liccio: applicati adunque a queste cose fin da fanciulli, neppure il nome mio conoscevano.
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