Il Sacerdote. Primieramente, è vero ciò che dicono di te, che tu divoravi i figliuoli avuti da Rea, e che ella, sottratto Giove, e posta una pietra invece del fanciullo, te la diede a mangiare: e che esso poi cresciuto in età ti tolse la signoria, ed avendoti vinto in una battaglia, ti cacciò nel Tartaro, ivi ti incatenò, e con te tutti quelli che tennero dalla tua?
Saturno. Ehi tu, se oggi non fosse festa, e lecito d’imbriacarsi, e dire ogn’ingiuria ai padroni, sapresti che posso ancora non farmela passare la mosca pel naso, io: farmi questa sorte di dimande, senza aver rispetto a un dio così canuto e vecchio!
Il Sacerdote. Io questo, o Saturno, non lo dico io, ma Esiodo ed Omero; e m’incresce dirti che quasi tutti gli uomini lo tengono per vero.
Saturno. E credi tu che quel pecoraio chiacchierone sapesse il vero dei fatti miei? Pensaci un po’. Ci può esser mai un uomo (non dico un Dio) che voglia mangiarsi i figliuoli, se pur non sia un Tieste, che li mangi per inganno dell’empio fratello? Ma sia pure: come non sentir sotto i denti che è pietra e non carne? Non c’è stata mai guerra; non mai Giove mi ha tolto il regno per forza, ma gliel’ho ceduto io da me, e mi son ritirato. Quai catene, qual Tartaro? io son qui; e tu mi vedi, se non sei cieco come Omero.
Il Sacerdote. E per qual cagione, o Saturno, lasciasti il regno?
Saturno. Ti dirò. In prima essendo vecchio e perduto di podagra (e questo ha fatto credere al volgo che io ero incatenato) io non potevo bastare a contenere la gran malvagità che ci è ora: quel dover sempre correre su e giù, e brandire il fulmine, e sfolgorare gli spergiuri i sacrileghi i violenti, era una fatica grande e da giovane: onde con tutto il mio piacere la lasciai a Giove.
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