Ed ancora mi parve bene di dividere il regno tra i miei figliuoli, ed io godermela zitto e quieto, senza aver rotto il capo da quelli che pregano e che spesso dimandano cose contrarie, senza dover mandare i tuoni, i lampi, e talora i rovesci di grandine. E così da vecchio meno una vita tranquilla, fo buona cera, bevo del nettare più schietto, e mi fo un poco di conversazioncella con Giapeto e con gli altri dell’età mia: ed egli si ha il regno e le mille faccende. Se non che m’ho voluto riservare questi pochi giorni, alle condizioni che t’ho dette, e ripiglio il regno per ricordare agli uomini la vita che menavano al tempo mio, quando senza seminare e senza arare, la terra produceva tutt’i beni, non spighe ma pane bello e fatto, e le carni già cotte, e il vino correva a fiumi, e c’eran le polle di mele e di latte. Tutti erano buoni, tutti uomini d’oro. Questa è la ragione della breve durata del mio regno, e però ogni parte è pieno di schiamazzi, di canti, di scherzi, e non c’è alcuna distinzione di servi e di liberi; chè al tempo mio nessuno era servo.
Il Sacerdote. Eppure, o Saturno, io credevo che tu avessi tanta pietà dei servi e degl’incatenati per quella tale voce, per consolare quelli che patiscono come te, che già fosti servo e ti ricordi della catena.
Saturno. E non la finisci con queste stoltezze?
Il Sacerdote. Hai ragione: la finisco. Ma dimmi un’altra coserella. Al tempo tuo gli uomini usavano di giucare a dadi?
Saturno. Sì, ma non i talenti e le migliaia come fate voi: ma per lo più si giucava a noci; e così il perditore non s’affannava, non piangeva, non rimaneva egli solo sempre digiuno fra tutti gli altri.
| |
Giapeto Sacerdote Saturno Sacerdote
|