Mentre questo accadeva, io, o Filone, ripensavo tra me a quel detto comune: Niente giova il sapere le scienze, se la vita non s’accorda alla virtù. E vedendo costoro valenti in parole, per le loro opere giustamente derisi, dicevo tra me: Fosse vero ciò che si dice, che l’istruzione toglie la retta ragione a chi riguarda solamente a ciò che è scritto nei libri? Di tanti filosofi che erano lì, non ce ne fu uno solo senza biasimo: chi la fece brutta, chi la disse più brutta. Nè potevo dare tutta la colpa al vino, pensando ciò che aveva scritto Etimoclete senza avere ancora nè mangiato nè bevuto. Era il mondo a rovescio: gl’ignoranti mangiavano moderatamente, non parevano nè ubbriachi nè scostumati, ma solo ridevano e forse spregiavano quelli che fino allora essi avevano ammirati e dall’aspetto tenuti per baccalari: i sapienti per contrario insolentivano, si bisticciavano, diluviavano, strillavano, venivano alle mani; e il bravo Alcidamante pisciava in mezzo la stanza senza un rispetto alle donne. Questo fatto della lettera mi pareva, per fare un gran paragone, tale quale quello della Discordia; della quale i poeti contano che non essendo invitata alle nozze di Peleo, gettò su la tavola un pomo, donde nacque sì grande guerra ad Ilio. E così mi pareva che Etimoclete, gettando in mezzo quella sua lettera, come un altro pomo, fece nascere non minori mali di quelli dell’Iliade.
Intanto non cessavano Zenotemi e Cleodemo dal contendere, benchè fosse Aristeneto in mezzo a loro. - Per ora, diceva Cleodemo, mi basta di avervi chiariti ignoranti; dimani poi mi vendicherò di voi come si conviene.
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