E tanto non si conosce certo l’età sua, rispetto a quella d’Esiodo, che preferiscono al nome ond’è conosciuto quello di Melesigene; e lo fanno povero o cieco. Ma sarebbe meglio lasciar tutte queste cose nell’incertezza in cui sono. Però l’encomio mio è ben ristretto, lodar la poesia senza alcuna azione, e andare spigolando sapienza nei versi. Ma il tuo è maneggevole, facile, piano, sopra nomi accertati e conosciuti, come una torta bella e pronta che vuole da te il solo condimento. Quale cosa non grande e non splendida la fortuna diede a Demostene? quale non conosciuta? Non gli fu patria Atene, la leggiadra, la celebrata, la colonna di Grecia? Oh se avessi io per mano Atene, per poetica licenza entrerei a parlar degli amori degli Dei, del giudizio di Marte, delle prime abitazioni, e del dono dell’ulivo, e delle feste Eleusine. Delle leggi poi, e dei tribunali, e delle solennità, e del Pireo, e delle colonie, e dei trofei marittimi e terrestri nessun uomo al mondo potria giungere a parlarne convenevolmente, come dice Demostene. Però avrei soverchio di ogni cosa. E non crederei di allontanarmi dall’encomio, essendo regola che la lode della patria torna ad ornamento del lodato: e così Isocrate nel suo panegirico di Elena vi messe Teseo. I poeti è gente liberissima: ma tu forse hai paura che facendo sproporzionato il lavoro, non ti motteggino con quel proverbio, che la scritta è maggiore del sacco. Lasciando Atene, viene nel discorso il padre suo Trierarca, e questo è vero piedistallo d’oro, per dirla con Pindaro: chè allora non v’era in Atene dignità più splendida di quella d’un trierarca.
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