Eppure quanto avrei voluto affidarmi più tosto a lui, che a quei marinari saccenti, ciascuno de’ quali v’è scritto quanto si piglia da me, danaro, legna, pedaggi, bestiami, terre, chi in Beozia, chi qui. Ma noi prenderemmo piuttosto le mura di Bisanzio con macchine, che Demostene con oro. Io poi, o Parmenione, se un Ateniese parlando in Atene antepone me alla patria sua, gli mando oro sì, amicizia no; e se uno per amore alla sua patria odia me, io combatto contro costui come combatto contro una fortezza, un muro, un arsenale, uno steccato, ma ne ammiro la virtù, e tengo beata la città che lo possiede. Quello, non avendone più bisogno, volentieri lascerei perire: costui vorrei che fosse qui dalla parte nostra, piuttosto che la cavalleria degl’Illirii e dei Triballi, e tutti i soldati mercenari, perchè io non pongo la forza delle armi sopra la persuasion del discorso e la gravità del consiglio.» Così egli a Parmenione. E simiglianti discorsi fece con me. Essendo stato Diopite spedito da Atene con una flotta, io era in pensieri, ed ei ridendo mi diceva: «E tu mi temi un capitano o un’oste ateniese? Eppure le triremi, il Pireo, gli arsenali sono per me un giuoco ed una baia. Che potria fare una gente scarnascialante che vive tra sacrifizi, banchetti e cori? Se Demostene solo non fosse in Atene, io avrei la città più facilmente che non ebbi i Tebani ed i Tessali, per inganno, per forza, per maneggi, per danaro: ma ora egli solo vigila, ed è pronto ad ogni caso, e segue i nostri passi, e ad astuzie contropone astuzie.
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