Io, o Archia, ei diceva, non per timore di tormenti e di morte non verrei al cospetto di Antipatro; ma, se è vero questo che voi dite, molto più debbo io guardarmi di avere la vita in dono da Antipatro, e lasciare la parte de’ Greci pei quali ho parteggiato, e passar in quella de’ Macedoni. Bella saria per me la vita, se me la offerisse il Pireo, e la trireme che io diedi, ed il muro ed il fossato rifatti a mie spese, e la tribù Pandionide cui feci tante spontanee larghezze, e Solone, e Dracene, e il franco parlar dalla tribuna, e un popolo libero, e i decreti militari, e le leggi navali, e le virtù dei nostri maggiori, e le vittorie, e la benevolenza de’ miei cittadini che spesso mi coronarono, e la potenza dei Greci da me finora salvati. Se dovessi vivere per pietà, saria bassezza sì, ma saria meglio accettar la pietà dai parenti dei prigionieri che io riscattai, dai padri delle fanciulle che io allogai, o da quelli che io dai debiti liberai. E se non può salvarmi il magistrato di questa penisola(143) ed il mare, a questo Nettuno io chiedo di essere salvato, ed a questo altare, ed alle sante leggi. E se pure Nettuno non può serbare inviolato l’asilo del tempio, e non ha vergogna di consegnar Demostene ad Archia, morirò, e non pregherò Antipatro invece di questo Dio. Potevo io aver per amici più i Macedoni che gli Ateniesi, ed ora essere a parte della vostra fortuna, se mi metteva nella stessa riga con Callimedonte, con Pitea, con Demade. Poteva, benchè in tarda età, mutare animo, se le figliuole di Eretteo e Codro(144) non mi facevano vergognare.
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