Giove. Il bando già te l’ha permesso: non hai bisogno di me.
Momo. Io dico adunque che il male lo fanno alcuni di noi, ai quali non basta che di uomini sien diventati iddii, ma han menato qui un codazzo di servitori e di cagnotti e li han fatti eguali a noi, per mostrare così che ei son grandi e valenti. I’ credo, o Giove, che mi si conceda parlar con franchezza: chè altramente io non potrei: e tutti mi sanno che son libero di lingua, e non taccio quando vedo il torto, ma taglio, e come la sento la spiattello senza rispetti per alcuno, e senza timore: però a molti sembro acerbo e calunniatore per indole, e mi chiamano il pubblico accusatore. Ma poichè io n’ho il diritto, ed è stato bandito, e tu, o Giove, mi permetti di parlar francamente, io parlerò senza niente dissimulare. Molti adunque non contenti che essi entrano nel nostro consesso, e seggono al comune banchetto, benchè sieno mezzo mortali, ci han condotto anche il loro servidorame e squadre di danzatori; i quali si sono traforati tra i cittadini del cielo, ed ora si pigliano la parte loro de’ donativi e de’ sagrifizi senza pagarci il tributo dei forestieri.
Giove. Lascia gli enimmi, o Momo, parla chiaro e tondo, e di’ anche i nomi: chè ora stai troppo su i generali, e sei franteso da molti. Un franco parlatore deve dire netto ogni cosa.
Momo. Bene, o Giove, tu mi sproni a parlar franco: la fai veramente da re e da magnanimo: e sì li dirò i nomi. Adunque questo gran prode di Bacco, questo mezz’uomo, neppur greco per lato di madre, la quale era nipote d’un Cadmo mercatante della Sirofenicia, poichè fu fatto degno dell’immortalità, io non dico chi egli sia, con quella mitra in capo, così briaco, e balenante; perchè pensomi che tutti veggiate come è molle e infemminito, e mezzo furioso, e sente di vernaccia sin dal mattino.
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