Sicchè lascia anche questa.
Crizia. E Giunone moglie e sorella di Giove non l’accetti?
Triefonte. Oh, taci per quella sporchissima sozzura di costei: via scartala, gettala, e passa oltre.(154)
Crizia. E per chi vuoi che io giuri?
Triefonte. Ecco:
Un Dio signor, grande, immortal, celeste;
figliuolo del padre, spirito procedente dal padre: uno da tre, e tre da uno: questo tieni per Giove, e questo abbi per dio.
Crizia. Tu m’insegni ad abbacare, ed un giuramento d’abbaco. E sai d’abbaco quanto Nicomaco Geraseno.(155) Non intendo che dici, uno tre, e tre uno. Dici forse il quaternario di Pitagora, o l’ottonario, e il trentenario?(156)
Triefonte. No, ma
Arcane cose, e di silenzio degne;
altro che misurar quanto salta una pulce! Chè io t’insegnerò che è l’universo, chi era prima dell’universo, e come fu fatto l’universo. Da prima anche a me avvenne quello che ora a te; ma poi che scontrai un Galileo calvo e nasuto, che in un viaggio aereo era stato nel terzo cielo, e vi aveva imparate cose bellissime, egli per mezzo dell’acqua ci rinnovellava, ci metteva su le orme dei beati, e ci toglieva dalle vie degli empi. Ed io, se mi ascolterai, ti farò veramente uomo.
Crizia. Di’ pure, o dottissimo Triefonte; chè io ti seguo con rispetto.
Triefonte. Hai letto mai la commedia del poeta Aristofane, intitolata gli Uccelli?
Crizia. Sì.
Triefonte. Ivi è scritto così:
Prima era Cao, e notte, e negro Erébo,
E Tartaro vastissimo: nè terra
V’era, nè v’era aëre, nè cielo.
Crizia. Bene: e poi che v’era?
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