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      Ed io scegliendone quante mi parrà bene di non lasciare, dirò brevemente per pagare il mio debito alla bellezza, e fare a voi cosa grata lasciando il lungo ragionare. Quelli che per fortezza o per qualunque altra virtù paiono a noi superiori, se col continuo ben fare non ci sforzano a ben volerli, noi piuttosto li invidiamo come non avvenga loro un male. Ed ai belli noi non pure non invidiamo la leggiadria, ma come li vediamo ce ne troviamo allacciati e presi, e non ci stanchiamo di servirli a tutto nostro potere, come ad Iddii. Con più piacere, uno vorria ubbidire ad una persona leggiadra, che comandare ad una non leggiadra, e saria più contento se ella lo comandasse in molte cose, che se ella non lo comandasse affatto. Degli altri beni di cui abbiamo bisogno non vogliamo più, quando li abbiamo avuti: della bellezza non siamo sazii mai, e se anche vincessimo il figliuolo di Aglaia, che andò con gli Achei a Troia, se anche il bel Giacinto, e il lacedemonio Narciso vincessimo di bellezza, non ci parrebbe assai, e temeremmo, chi sa! che qualche postero non potrebbe superarci. Quasi, per così dire, di tutte le cose che fanno gli uomini è esempio la bellezza: a bellezza i capitani cercano di schierare gli eserciti, gli oratori di comporre le orazioni, i pittori di dipingere le immagini. Ma che dico io di quelle cose che hanno per fine la bellezza? Quello che ci servono ai nostri bisogni, noi non lasciamo cura per farcele quanto possiamo bellissime. Infatti Menelao non tanto aveva badato alla commodità delle sue case, quanto a far maravigliare chi v’entrava, e però se le fece ricchissime insieme e bellissime: nè s’ingannò. Perocchè il figliuolo di Ulisse, andatovi per domandar di suo padre, ne restò tanto ammirato che disse a Pisistrato di Nestore:


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Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini
Volume Terzo
di Lucianus
Edizione Le Monnier Firenze
1862 pagine 448

   





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