Di quanti sono passati per Lenno, alcuni l’ammiravano, altri ne ridevano.
Musonio. Egli ha una voce, o Menecrate, nè mirabile, nè ridicola; chè la natura gliel’ha data senza difetti e mediocre; ma egli a dispetto della natura la rende cupa e grave abbassando la faringe, sicchè il canto n’esce con un certo rimbombo. Pure egli ha certi tuoni che la rendono sopportabile, se non la sforza troppo, ha certo garbo ed agilità nell’accordo delle note e nella modulazione, nel sonare la cetera, nel passeggiare a tempo e fermarsi, e ritrarsi, e nel conformare gli atteggiamenti al canto: nel che vi è la sola turpitudine che un imperatore sappia bene queste cose. Quando poi vuole contraffare gli Dei, poh! le risa che scappano agli spettatori, benchè sovrasti il finimondo a chi ridesse di lui. Chè ei si ciondola tirando forte il fiato, e levasi sopra le punte dei piedi aperti, ripiegandosi indietro, come chi sta su la ruota. Essendo naturalmente rubicondo, più arrossisce e s’accende nella faccia, ed il fiato è poco, e non gli basta.
Menecrate. E quelli che gareggiano con lui, come si lasciano vincere, o Musonio? Forse gli cedono ad arte per compiacerlo?
Musonio. Sì ad arte, come quelli che si lasciano vincere nella lotta. Ripensa, o Menecrate, a quel tragediante che morì all’Istmo: corrono lo stesso pericolo gli artisti che gli contendono nell’arte.
Menecrate. Quale tragediante? Non ne ho udito mai parlare.
Musonio. Odi adunque un fatto incredibile, ma avvenuto innanzi agli occhi dei Greci. È legge nei giuochi Istmici che non si possa gareggiare nè in commedie nè in tragedie; ed a Nerone venne in capo di vincere in tragedie.
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