Cesare di poesia, vedremo le fronde apollinee sopra le sue ampie tempie? E prenderà l'Italia per mano, come un guerriero del Frugoni, impalmandosi di Vittoria? Tenta imprese, Italia:
«così veda tu, un giorno, il mare latino aprirsidi strage alla tua guerra:»
così applaudi allo imperialismo, che uno statista geniale, impetuoso, ma fuorviato ti inoculava, ed evoca una legione al tuo domani, se hai trovato Adua in fronte e l'ambe scheggiate: i cotonieri lombardi intanto ingrassano colli schiavi del Benadir.
Accettiamo dunque il novissimo poeta nazionale; come Ovidio ci racconta i Fasti e non distingue. Non cerchiamogli la ragione di un
«donato un regno al sopraggiunto re»
e come si completi con quest'altri:
«o tu, della porpurea sorteerede, che navigavi il mare,
Giovane, che, assunto dalla Morte,
fosti re sul Mare!»
(non soffermiamoci alle allitterazioni bizantine del Mar e del Mor graziose a ripetersi), non vogliamo chiedergli coerenza, chè al poeta ogni cosa è lecita (Ars poetica) e scriva di tutto, in quanto gli piaccia; ma, con opportunità, confessiamo che Foscolo, integro, aveva ragione d'inalberarsi all'impudenza aulica del Monti e di bollarlo tra i cilii a fuoco. E se Foscolo fosse, od alcuno potesse rappresentarlo, aggiungerebbe un nome recente a scherno, nella sua Ipercalissi.
Non facciamone però caso; D'Annunzio dà quanto può. Egli vuole meravigliare e piacere coll'arte traditrice dei paradossi estetici; sente il bisogno di far grande rumore e la voluttà di costruire grandi monumenti di arena e di vento.
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Antidannunziana
D'Annunzio al vaglio della critica
di Gian Luigi Lucini
Studio editoriale lombardo 1914
pagine 379 |
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