E però l'Otre può dirci, con qualche gloria:
«O uom che m'odi fu laboriosala mia sorte. Non fecero grandi ozii
a me gli iddii».
Onde sta fresco ancora e tenderà domani il suo ventre rugoso alla vendemmia, già che il desiderio dell'uomo è eterno e rinasce ad ogni stagione.
Confesso che io non mi accomuno in tutto coi lodatori. Avendo molto letto, secondo il mio cattivo costume, mi sovvengono vicini dei rapporti che ad altri sfuggono e mi sembra che il ricordato meglio valga del presente.
Avrò forse torto, ma, se non vi è noia, vi porgo qui in breve tre raffronti, per non sembrarvi a corto d'argomenti.
I. L'ANTICO. - Quando li Dei vivevano ancora, o stavano per agonizzare dignitosamente tragici sulle rovine del loro gran mondo, che una parola di pace e di guerra aveva suscitato, i poeti erano meno orgogliosi e più semplici, il gonfio otre diveniva il vaso, l'orciuolo figulino e famigliare, estetica pura di giocondi conviti ed utile recipiente dimesso nel fresco e nella sabbia della cavea a temperatura costante. Allora, per cantarlo Filippo (è in dubbio se sia quello di Macedonia, re quinto di nome, debellato dal console Quinto Flaminio; o l'altro di Tessalonica, caro ai Tolomei, gramatico purista e compilatore di una Ghirlanda poetica); un Filippo dei due, non calza il coturno, ma bocca a bocca, ode le confidenze della cava creta e le trascrive:
«Io(38), vaso d'Adria, dal collo un giorno gorgogliante ed armonico, quando custodiva il tesoro di Bacco, ora fesso alla pancia, eccomi pronto, qui, a proteggere la giovine vite, che fra poco coprirà, tappezzando, i pali di questa bella pergola.
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Antidannunziana
D'Annunzio al vaglio della critica
di Gian Luigi Lucini
Studio editoriale lombardo 1914
pagine 379 |
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