In tutte e due le composizioni agunt et cantant: Ippolito, Fedra: nella inglese mormora in sordina e con parca notazione classica un Coro delle donne di Trezene.
L'abilitą del D'Annunzio fu somma nello smarcare dal suggello swinburghiano i versi di lui: cambia loro il posto, li anticipa, o li fa seguire interpolatamente; li confonde colla sua broda; li piega, li comprime, li schiaccia dentro le proprie cacofonie; li sforbica e li torchia; ne ricava il sugo dentro un piattello gią ingombro di roba altrui; ne condisce il suo intingolo come di un liebig e di fomenti caldi; lo ammanisce alla promiscua e melensa ignoranza delle piccionaje, delle platee e della gazzetteria nostrana, e se ne fa applaudire. Non importa: la colpa non č nostra; ma nostro sarebbe il delitto se non ci si trovasse capaci di avvalorare di documenti la asserzione, quindi, di mostrarsene responsabile. Ed eccoli.
D'Annunzio incomincia le battute di Swinburne da lontano, da quando Fedra, come una damina isterica della cosmopolita societą attuale, civetta coll'Aedo; perchč č pur di bon-ton sollecitare la brachetta, platonicamente, al poeta del salotto per eccitarsi, quando si ha speranza quasi certa di positivo e massiccio abbraccio polposo da un ginnasta-cavallerizzo, come Ippolito. E Fedra, parlando di sč in terza persona, dice a pagina 97, verso 1329 e seguenti:
Dea non č quella; e pure č consanguineadi Eterni. Non divina non umana
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Antidannunziana
D'Annunzio al vaglio della critica
di Gian Luigi Lucini
Studio editoriale lombardo 1914
pagine 379 |
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