Si rievocava dal suo gusto, sempre insoddisfatto, per un di più d'amare, per quello spasimo di quadruplice essenza, di sadica frigidità, quale li abusati sensi di un cinquantenne desiderano, cacciano, eccitano, dalla bavosa carezza al morso sanguinoso. Parigi, che è aperta a qualunque inversione, accettava questa abnorme bellezza di castigo e di peccato, questo San Giovanni - Bacco giovanetto, questa Ebe infibulata e fellatrice, stilitamente magra. Era fatale che un dubio San Sebastiano riassumesse tutte le femine del ciclo d'annunziano: era la nuova bellezza nevrastenica per li ossessionati della etero-mania: Asta Nielsen(75) l'autenticava dal suo regno del Cinematografo; la Pisanella l'avrebbe contorta nell'agonia asfissiata e bruciata tra i fiori.
In questo punto della vita artistica e della produzione d'annunziana, fermarsi a considerare, per tutto, il San Sebastiano, come il miglior portato di un periodo di completa decadenza, è determinare la anabasi gabriellina, la completa disfatta.
D'Annunzio, da quel mimo in poi, non può più pretendere al nome di poeta, di creatore, di chi, insomma, mette tutto sè stesso, col massimo abbandono, colla massima sincerità, nella espressione di sè stesso: l'Opera. Egli non è più l'artista, ma l'arteficie; il manuale che lavora di commissione, che fabrica il mobiletto ricercato dalla moda, o dipinge quel fiorellino, con quel tal colorino, in quel tal angolo di fazzoletto, con quella speciale grazietta che ci vuole. Certo; non avrà designato padrone, ma un cliente imperioso ed anonimo: guai all'artista che si è lasciato mettere il piede addosso dalla bestia feroce e biblica che chiamasi Folla!
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Antidannunziana
D'Annunzio al vaglio della critica
di Gian Luigi Lucini
Studio editoriale lombardo 1914
pagine 379 |
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