Domenico Lanza ha enumerato, con grande acume, i vecchi elementi dannunziani della nuova tragedia; il mercante della Francesca travestito da pirata fenicio, le supplici che ci rimandano alla Figlia di Jorio, e quella invariabile «madre nobile», che, nata col nome di Candia della Leonessa, persiste a piangere, oziosa e superflua, sullo sfacelo delle sue famiglie, battezzata a volta a volta donna Aldegrina, diaconessa Ema ed Etra. Lo stesso poteva dirsi della Nave; e tuttavia nella Nave c'era ancora qualche nuova, sebbene fiacca e malcerta, folata d'invenzione. Ma che cosa ci offre la Fedra che non ci offrano le tragedie precedenti e, dove non le tragedie, i canti delle Laudi col ditirambo d'Icaro e la morte del Cervo? Roba di ben altra qualità. Il nucleo della Fedra si riduce a un'apologia di reato. Fedra è calunniatrice, incestuosa e selvaggia; e ciò non pertanto ha ragione. È superiore alle dee; e nessun mortale ha diritto di condannarla. Sapevamcelo: la santità del delitto era proclamata fin dalla prima pagina dell'Innocente. E l'ultimo atto della Città Morta, se voi mettete la gonnella a Leonardo e i pantaloni a Bianca Maria, è press'a poco un doppione del terz'atto della Fedra».
Così appare a lui ed anche a me una tragedia sbagliata. - A corroborarci nella nostra opinione anche Alfredo Gargiulo ci soccorre colla sua. Op. cit; «L'ultima opera del D'Annunzio in ordine di tempo, di cui ci resti da dire qualche parola, è la Fedra (1909). Come tutti i drammi storici, pei quali il poeta fece un'elaborata preparazione, è ricchissima di fatti messi sulla bocca dei personaggi.
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Antidannunziana
D'Annunzio al vaglio della critica
di Gian Luigi Lucini
Studio editoriale lombardo 1914
pagine 379 |
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