Pranzavasi a buon mercato, spesso, a credito, sotto la pergola densa d'estate, rumorosa di carambole, se le boccie, sulla terra battuta e compressa del giuoco, si urtavano schioccando. Praga vi portava la sua malinconia, la sua barba bionda, che gli invadeva le guance, li occhi azzurri sotto la fronte amplissima e sognatori, i capelli lunghi e ritti, le scede, le baje, la lestezza delle sue caricature; qualche volta, la domanda un poco ebra e fatua:
Chi è,(51) chi non è?
Oh povero me!...
Il prete lo giura,
Ma nulla io ne so;
Chi dice di sì, chi dice di no....
Gli è il coro dei matti che Adamo intonò!"
Giuseppe Grandi, tumido del trionfo del suo Beccarla, fremeva di orrore se Stambul, la cagnola di Giulio Uberti, l'avvicinava: - Giulio Uberti, poeta dimenticato, perpetuo innamorato settantenne a consumare il suo suicidio per una giovanetta quadrilustre ed allieva sua di declamazione, Miss Alice Lohr londinese, che lo amò dopo morto. Giulio Uberti, che appariva, tra li amici, col suo mezzo cilindro di felpa folta, el castor, inconcato a barchetta, imposto all'occipite perchè il tormentato e spazioso fronte di lui s'illuminasse al sole, la pipa corta e brunita, stretta fra le labra; - classico come il Cominazzi repubblicano della Fama, cantore con vena foscoliana delli eroi di repubblica, Tito Speri, Washington, Lincoln, delle Stagioni, dei Bardi profughi, dello Spartaco, e, se in oggi saputo o commentato, vergogna ai precocemente calvi bardassa, ai Merlin Coccaj della bambagia italiana: Giulio Uberti, cui
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