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      Chi piú personale del mago Péladan?
      Ultimamente in patria questa nuova gagliardia spirituale commosse gli animi, né per ciò l'ingegni si volsero troppo proni e rispettosi oltremodo alle straniere importazioni. Le consacrate tradizioni delle muse romane della decadenza, qui rivivevano ancora e, se l'impeto primo venne d'altrove, si poetò italicamente. Già il Leopardi, ardito e scettico nel suo nihilismo, aveva dato all'idea germanica di Hartmann forma ed anima italica: già lo stesso Foscolo, classico per eccellenza, pure nuovi modi trovava piú squisiti e piú spirituali, purissimo rifulgendo dai Sepolcri e dalle Grazie che loro assunto era schiettamente un pensiero, un simbolo: e piegò la prosa a quella mirabile concezione triste e soave, scettica e generosa del Viaggio sentimentale di Sterne, aprendo il campo al modo artistico dell'analisi che poi avrebbe trionfato nel romanzo psicologico. Ed ora, fermandomi ai migliori (né mi sia bestemia il dire), ecco l'Aleardi che superiore intende al romanticismo nella stagione dei risvegli nazionali come l'Hugo in Francia, ecco il Praga, il lombardo Heine, troppo obliato, troppo poco compreso, ecco Stecchetti che accoppia Petrarca elegiacamente col sarcasmo feroce di Baudelaire, stanco del già conosciuto e pure debole alla conquista del nuovissimo: ora mi fermo volentieri all'ultimo, a Gabriele d'Annunzio che nella giovane e luminosa esistenza letteraria dimostrò dalla Terra Vergine al Piacere la serie della sua evoluzione e si affermò poderoso alla meta coll'Innocente.


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Scritti critici
di Gian Luigi Lucini
pagine 354

   





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