Ecco adunque Alfredo Sandri, cui l'etisia distrugge, ingannandolo d'effimeri impeti, nelli idillii funerei che il morbo gli suggerisce e la nervosità gli fa produrre; Valerio Fabri, il ricchissimo, che prepara detonanti in un palazzo meraviglioso, nel quale delle bocche sensuali e fredde cantano il lied delle Figlie del Reno (tre bianche nihiliste le raffigurano) e sulle mura delle sale risplendono arazzi ed affreschi preraffaelliti; ed è Alberto d'Osio irrequieto; Luciani, che, d'una sua tragedia «Seneca», spinge al suicidio il Vulpius, che attendeva a musicarla; Leo Savelli, dubbia figura di giornalista mantenuto; Clemenzi, l'ubriaco cronico d'assenzio e ladro.
Le scene s'avvicendano sulle tavole liriche e nei cenacoli: la strana società si ammala di dubio e volge ad un ipseismo sovrano d'edonisti squilibrati: come ritrovare qui e la propria personalità ed il sapersi guidare, distinguere, raffrenarsi, conoscersi?
Solo Silvia, di tutti i morenti, di tutti i voluttuosi solitarii, di tutti i pazzi morali, verso a questa vacuità d'estetica e per questa scienza oscura e speciale, conserva intiera la propria essenza; è la rossa ed ardente nota della vita, forse troppo violenta nel sacrificio, voluto, lucido; forse troppo passionale, ad intenzione, per raffigurare, come vuole l'autore, un concetto animico e simbolico; a punto la Vita. Essa, in una notte, in cui l'atmosfera incombe pesante e soffoca e toglie al cervello la facoltà della cogitazione, quando l'estrema crisi vibra e scoppia in un atto violento d'intenzione mortale, e l'Almaura avvilito, stanco di sé, della inutilità della vita, schernito dall'arte beffarda, impotente ad ascendere dolorando il calvario delle sommità ideali, si concede alla nera poesia del suicidio; Silvia, è per lui la salvezza.
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